Il recente provvedimento del Tribunale di Milano, che ha disposto l'amministrazione giudiziaria per un anno nei confronti di una società dell'alta moda, marchio di spicco nel settore del lusso e parte di un colosso multinazionale, evidenzia con chiarezza la crescente attenzione delle autorità giudiziarie verso la responsabilità delle aziende committenti in relazione alle condizioni di lavoro lungo la propria filiera produttiva. L'accusa di aver "colposamente agevolato" lo sfruttamento lavorativo, pur in assenza di una consapevolezza diretta, sottolinea la necessità improrogabile di modelli organizzativi robusti e sistemi di controllo interno efficaci.
Questa decisione si inserisce in un quadro di provvedimenti analoghi già adottati nei confronti di altri rinomati brand del lusso come Armani, Dior, Valentino e Alviero Martini. Tali misure, previste da una specifica normativa, non configurano un sequestro penale della società, bensì l'affiancamento di un professionista nominato dal Tribunale con l'obiettivo di bonificare le criticità interne. Ciò contrasta apertamente con la recente sottoscrizione di un protocollo d'intesa, che include associazioni sindacali e datoriali, volto a garantire la legalità nella filiera produttiva dell'alta moda.
Il caso specifico ha rivelato una complessa rete di subappalti. La produzione di capi di abbigliamento, affidata inizialmente a una società appaltatrice che non disponeva di proprie capacità produttive, veniva poi subappaltata a sua volta a ulteriori opifici. In questi ultimi, sono state riscontrate gravi violazioni delle norme giuslavoristiche, tra cui l'impiego di manodopera irregolare, condizioni di lavoro insalubri e pericolose, orari lavorativi eccessivi e retribuzioni inferiori ai minimi previsti. Sono stati altresì rilevati macchinari privi di dispositivi di sicurezza, assenza di sorveglianza sanitaria e di formazione per i lavoratori.
Dagli atti è emerso che, sebbene siano stati effettuati controlli da parte della società coinvolta, questi sono apparsi "più formali che sostanziali", non riuscendo a individuare le reali condizioni operative della catena produttiva. Prodotti e schede di produzione della società committente sono stati rinvenuti negli opifici irregolari. La documentazione interna ha mostrato come la società appaltatrice primaria non avesse il personale o i macchinari idonei per la produzione, delegando di fatto l'attività a terzi.
Il collegio giudicante ha concluso che il meccanismo, finalizzato all'abbattimento dei costi e alla massimizzazione dei profitti attraverso l'elusione delle norme penali e giuslavoristiche, è stato perpetrato in modo strutturale e colposamente alimentato dalla società in questione. Sebbene non si presuma una piena consapevolezza dello sfruttamento, è evidente una carenza strutturale nell'organizzazione aziendale atta a prevenire rapporti commerciali con soggetti che operano in regime di sfruttamento. I vantaggi economici derivanti da questa inadeguatezza sono stati significativi nel breve periodo, con costi unitari di produzione nettamente inferiori rispetto ai prezzi di vendita al pubblico. Tuttavia, nel lungo periodo, un simile approccio non premia: il commissariamento del brand, come conseguenza diretta di tali mancanze, non solo ne affossa l'immagine e la reputazione, ma mina inevitabilmente i ricavi e la stabilità finanziaria dell'azienda.
Questa vicenda sottolinea con forza come l'affidamento a professionisti dell'investigazione privata, come Dogma, costituisca una strategia proattiva e indispensabile per le aziende che desiderano salvaguardare la propria reputazione e prevenire l'insorgere di simili criticità. La nostra esperienza dimostra che l'implementazione di approfondimenti costanti lungo l'intera catena di fornitura, come già avviene per numerosi nostri clienti nel settore della moda e del lusso, mitiga significativamente il rischio di coinvolgimento in pratiche illecite e garantisce la conformità normativa.
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Autore: Giorgio Gobbi
Compliance - Dogma S.p.A.
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