La legge 104, emanata il 5 febbraio 1992, è stata introdotta dal legislatore per regolare gli aspetti dell’assistenza, dell’integrazione sociale e della tutela dei diritti delle persone con disabilità con l’obiettivo di garantire loro pari opportunità e dignità. Con una certa lungimiranza la legge introdusse anche un riconoscimento e una tutela anche per coloro che si prendono cura di una persona in condizione di disabilità, i cosiddetti “caregiver”.
Uno degli elementi centrali della L. 104 è il riconoscimento di permessi retribuiti a lavoratori dipendenti che si trovino ad assistere familiari con disabilità grave, consentendo loro di assentarsi dal lavoro per un massimo di tre giorni al mese mantenendo retribuzione e copertura previdenziale.
La norma tutela quindi tanto chi necessita di un’assistenza quanto chi si trova a dovere attendere a tale cura nei confronti di un familiare.
Negli ultimi anni, tuttavia, si è assistito a diversi casi di abuso dei permessi ex legge 104 con un utilizzo del tempo liberato dal lavoro per attività diverse da quelle di cura e assistenza. La giurisprudenza di legittimità è spesso stata chiamata a intervenire sul punto, contribuendo a chiarire alcuni aspetti non espressamente specificati dalla lettera normativa, talvolta anche con interpretazioni estensive.
I permessi sono un istituto fondamentale del diritto del lavoro, pensati per consentire al lavoratore di conciliare le esigenze personali e familiari con gli obblighi professionali. Concedendo al dipendente di assentarsi dal lavoro, i permessi rispondono alla necessità di favorire la cura familiare, la salute, la formazione o la partecipazione civica, rafforzano il principio di dignità del lavoratore e promuovono un equilibrio tra la vita privata e professionale.
È quindi piuttosto logico che un eventuale abuso di questi permessi, perpetrato ad esempio sfruttandoli per motivazioni diverse da quella per cui vengono concessi integra una grave violazione degli obblighi contrattuali del dipendente nei confronti del datore di lavoro e incrinano il vincolo fiduciario che tra questi si instaura e deve necessariamente sussistere in costanza di rapporto.
L’abuso dei permessi retribuiti può pertanto indurre il datore di lavoro a sanzionare il dipendente infedele con un licenziamento per giusta causa.
L’art. 33 legge 104/1992 parla genericamente di assistenza di una persona con disabilità in situazione di gravità che non sia ricoverata a tempo pieno presso una struttura.
È proprio sul significato del termine assistenza che la giurisprudenza è stata più volte chiamata a intervenire per fornire un’interpretazione. L’orientamento prevalente è incline a non riconoscere l’obbligo di una presenza fisica costante accanto alla persona assistita durante le ore coperte da permesso; l’assistenza deve infatti essere effettiva, significativa e prevalente.
Escludendo le attività di assistenza diretta che rientrano giocoforza nella legittimità (cura dell’igiene dell’assistito, supporto nelle attività domestiche, accompagnamento a visite mediche) è su quelle di assistenza indiretta che spesso si è giocata la differenza tra liceità e illiceità della condotta del dipendente caregiver.
Diverse sentenze della Cassazione hanno riconosciuto la legittimità di attività che si svolgono anche al di fuori della stretta assistenza alla persona e in luogo diverso dalla dimora di questa. È pertanto lecito che il caregiver si rechi a fare la spesa, ad acquistare farmaci o beni di prima necessità, a sbrigare pratiche burocratiche per conto del familiare o che organizzi l’ambiente domestico in cui si trova l’assistito.
È quindi chiaro che il dipendente che beneficia di tali permessi non possa utilizzare quelle ore per svolgere attività strettamente personali, svincolate dalle esigenze di cura del familiare. Costituisce pertanto abuso l’utilizzo del tempo liberato dal lavoro per fare vacanze, per svolgere attività ludico-ricreative o sportive, assistere a eventi, fare shopping. In questi casi, il datore è pienamente legittimato a procedere con un licenziamento per giusta causa; la Cassazione ha infatti più volte ribadito che l’abuso integra violazione del vincolo fiduciario tra datore e dipendente.
Questi aspetti sono stati recentemente ribaditi con l’ordinanza 1225/2025 con cui la Cassazione ha stabilito la legittimità delle attività complementari svolte nell’interesse della persona assistita (spesa, acquisto di farmaci, ricorso al medico di medicina generale per richiedere prescrizioni, ecc).
Il semplice fatto che, durante le ore coperte da permesso, il dipendente non si trovi fisicamente accanto all’assistito non configura di per sé un abuso. A giudizio della Cassazione la nozione di diritto al permesso per assistenza a un familiare disabile e quella correlativa di abuso implica un profilo non soltanto quantitativo, bensì anche e soprattutto qualitativo.
Il dipendente che abusa dei permessi ex legge 104 può incorrere, come già accennato, nel licenziamento per giusta causa in quanto la condotta configura un grave illecito contrattuale, sufficiente per rendere non proseguibile il rapporto di lavoro.
Sul piano civile e giuslavoristico il dipendente viene quindi meno agli obblighi contrattuali di fedeltà e diligenza e lede il vincolo fiduciario che sussiste tra lui e il datore di lavoro.
Il dipendente rischia però anche sul piano penale perché i permessi sono erogati dall’Inps. Le fattispecie che rilevano in questi casi sono l’indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316-ter c.p., la truffa aggravata ai danni dello Stato ex art. 640 c.p. se l’abuso è integrato da artifizi o raggiri e la falsità ideologica in atto pubblico ex art. 479 c.p. se il dipendente dichiara falsamente di aver prestato assistenza.
L’abuso dei permessi – tanto di quelli ex legge 104, quanto di quelli erogati per altre motivazioni – si realizza giocoforza all’esterno dello spazio aziendale. L’accertamento di queste condotte illecite non può che essere effettuato mediante una sorveglianza diretta del dipendente durante le ore in cui viene autorizzato a lasciare il posto di lavoro.
Il datore di lavoro non potrà quindi fare a meno di ricorrere a un’agenzia di investigazione privata che garantirà il rispetto delle normative nell’espletamento dell’incarico e l’efficacia delle prove raccolte. Occorre infatti ricordare che le prove, per essere ammissibili, dovranno essere raccolte lecitamente e costituiranno il principale supporto a disposizione del datore di lavoro per motivare il provvedimento di licenziamento per giusta causa e per resistere in giudizio.
L’investigatore opterà in questi casi per un’indagine che si basa sulle attività di pedinamento e appostamento, accompagnate dall’acquisizione di foto e video, per tracciare gli spostamenti del dipendente sospettato di abusare dei permessi e per verificare che le attività svolte nelle ore coperte da permesso siano effettivamente complementari all’attività di assistenza di un familiare in condizioni di grave disabilità.
L’attività di indagine sarà quindi funzionale anche a provare se, ad esempio, nelle ore coperte dal permesso il dipendente si reca presso un’altra azienda per svolgere un secondo lavoro o presso un’azienda concorrente, integrando così il caso di concorrenza sleale.
Il datore che sospetti dell’abuso da parte di un proprio dipendente dovrà procurarsi un solido supporto probatorio per poter procedere al licenziamento per giusta causa e a resistere nell’eventuale giudizio che potrebbe aprirsi con il dipendente.
Questo motivo, unito alla già accennata circostanza per cui i fatti si compiono al di fuori dell’azienda, rende indispensabile ricorrere a un’agenzia investigativa e a professionisti che siano quindi in grado di acquisire le prove necessarie.
Il ricorso a investigatori privati è stato ritenuto legittimo dalla Cassazione con la sentenza 4984/2014. L’indagine su un lavoratore dipendente è lecita in quanto non concerne l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuata al di fuori dell’orario di lavoro e in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa; non risultano pertanto, a giudizio della Corte, in contrasto con la l. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori).
L’intervento di un’agenzia investigativa assicura quindi al datore di lavoro un’adeguata efficacia dell’azione contro il dipendente infedele.
Un esempio concreto della rilevanza di indagini accurate e condotte in modo conforme alla normativa è offerto dalla recente ordinanza 2157/2025 della Corte di Cassazione, che ha legittimato il licenziamento di un dipendente colto ad utilizzare i permessi ex legge 104/92 per finalità personali, anziché per assistere il familiare disabile per cui gli erano stati concessi. Nel caso, i giudici hanno riconosciuto che l’uso improprio dei permessi compromette irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, e hanno valorizzato il fatto che le prove erano state raccolte nel rispetto della normativa sulla privacy e da professionisti con competenze legali specifiche.
In una materia complessa come quella dei permessi 104, solo indagini svolte da esperti del settore legale possono garantire la validità e l’utilizzabilità delle prove, evitando errori procedurali che potrebbero compromettere la legittimità delle decisioni aziendali.
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L’agenzia, che può contare su un gruppo multidisciplinare di professionisti, garantisce una raccolta efficace degli elementi probatori, assicurando contestualmente un’attività che rispetta la compliance normativa.
Il dossier investigativo, contenente le prove testimoniali e documentali dell’abuso, costituirà la base per eventuali azioni legali.
Il cliente che si rivolge a Dogma S.p.A. verrà inoltre seguito in ogni fase dell’investigazione, da una prima consulenza alla formulazione del dossier; l’agenzia può inoltre contare sulla sinergia con studi legali specializzati in diritto del lavoro e con consulenti del lavoro per un’assistenza del cliente a 360°.
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